IL GRANDE SOGNO

Italia - 2009
Genere: drammatico, storico
Regia: Michele Placido
Sceneggiatura: Doriana Leondeff, Angelo Pasquini, Michele Placido
Produttore: Pietro Valsecchi
Casa di produzione: Taodue Film S.r.l.
Interpreti
Luca Argentero: Libero
Riccardo Scamarcio: Nicola
Jasmine Trinca: Laura
Michele Placido: Andrea
Laura Morante: Maddalena
Massimo Popolizio: Domenico
Alessandra Acciai: Francesca
Marco Iermanò: Andrea
Brenno Placido: Giulio
Fotografia: Arnaldo Catinari
Montaggio: Consuelo Catucci
Musiche: Nicola Piovani
Scenografia: Francesco Frigeri

“Mio nonno ha fatto l'occupazione delle terre nel '48. Ricordo diceva sempre La rivoluzione, bella parola, grande sogno... ma poi ci si risveglia”. Recita così Scamarcio,col suo volto leggermente meno inespressivo del solito: frase da cui prende il titolo di questo nuovo film di Michele Placido entando di calca la mano sullo stile che ha fatto il successo del precedente “Romanzo Criminale”.
Il film si apre con la rassegna del capitano della celere che sbraita contro il proprio reggimento, e in particolare introduce Nicola, il personaggio interpretato da Scamarcio. Subito a questa scena viene contrapposta una discoteca dove si balla al ritmo di Rocky Roberts, e in cui c'è Laura (Jasmine Trinca). Di questa simbolica dicotomia si occuperà tutta la prima parte del film: da una parte c'è Libero (impersonato da un sempre più bravo Luca Argentero), descritto dalla polizia come “torinese, figlio di nn, operaio comunista iscritto al PCI , viaggio in Unione Sovietica, frequenta fisica a Roma dove vive senza fissa dimora”: è un idealista, ironico, pacifista, e parla un po' per frasi fatte, insomma un'emblematico e stereotipato leader della rivoluzione studentesca degli anni sessanta; dall'altra c'è il coetaneo Nicola, giovane meridionale arrivato a Roma, dove si arruola nel reparto mobile della polizia, prendendo spunto dall'esperienza del giovane Placido che si trasferì a Roma e partecipò agli scontri della Sapienza, proprio nelle vesti di celerino. L'impressione che lascia questo personaggio, è che la sua figura sia trattata con maggiore decisione dal regista, riportandoci la sua versione della Storia, cioè quella di un povero Cristo proletario martire del dispotico e autoritario sistema di cui fa parte, succube dei metodi della celere (i pestaggi alla “n'do cojo, cojo”), che in qualche modo deve lavorare (guarda un po' proprio nella polizia) per potersi garantire gli studi da attore: a lui si contrappone un mondo di giovani borghesi snob, reazionari,che hanno la possibilità di studiare, ma la bruciano per scimmiottare la rivoluzione culturale che nel resto del mondo cambiava le cose. Mha d'altronde Placido al tempo era il celerino e non lo studenti. La storia poi è un normale polpettone sentimentale a tre fra Nicola e Libero che si iniziano a contendere Laura, nel momento in cui Nicola viene spedito all'interno della Sapienza come infiltrato della polizia, da un comandante della celere, interpretato da un grande Silvio Orlando che, denotata la vena attoriale del giovane, si esibisce recitando un passo de “Il Conte di Carmagnola”. Dopo il film perde anche ogni spunto anche per poter essere criticato e diventa un'accozzaglia delle immagini di repertorio degli scontri all'univerisità, montate con le riprese delle ricostruzioni, brevi inquadrature sincopate dei vari personaggi, fuse da canzoni degli anni 60': un dejà vu continuo, molesto e mi chiedo davvero se basti seguire questo schema ormai collaudato (con risultati assai migliori) per fare una buona opera con presupponenza storica. Da citare il cameo di Tatti Sanguinetti nel ruolo di professore universitario contestato, e la bella interpretazione del sottovalutato Massimo Popolizio, grande attore che aveva partecipato anche al precendente “Romanzo criminale” nelle vesti del “Teribbile”.
La mia personale esperienza nella visione di questo scialbo film, si conclude durante i titoli di coda con la prima scena che m'è venuta in mente: Angelo Bernabucci (in “Compagni di scuola” di Carlo Verdone) che, dopo aver messo una canzone al juke-box, si rivolge allo sfigato Fabris ricordando le feste (e le donne) di quando era giovane. E con tono canzonatorio gli fa: “Ahò ma non c'annavi mai alle feste te? Non te invitavano vè?”.

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