ORPHAN

USA/Canada - 2009 - 123 min
Genere: drammatico, horror, thriller
Regia: Jaume Collet-Serra
Soggetto: Alex Mace
Sceneggiatura: David Leslie Johnson
Produttore: Leonardo DiCaprio, Joel Silver, Susan Downey
Casa di produzione: Warner Bros. Pictures, Dark Castle Entertainment
Distribuzione: Warner Bros. Pictures
Interpreti
Vera Farmiga: Kate Coleman
Peter Sarsgaard: John Coleman
Isabelle Fuhrman: Esther
CCH Pounder: Sorella Abigail
Jimmy Bennett: Daniel Coleman
Margo Martindale: Dr. Browning
Karel Roden: Dr. Värava
Rosemary Dunsmore: Nonna Barbara

Fotografia: Jeff Cutter
Montaggio: Timothy Alverson
Musiche: John Ottman
Scenografia: Tom Meyer



Un buon thriller made in Usa, prodotto dalla Appian Way Production Company di DiCaprio, che fa della messa in scena il suo punto di forza in luogo di una trama e di ambientazioni di certo non originali, anzi ultimamente piuttosto inflazionate, dal momento che sempre più spesso ci si ritrova tra mai nati, orfanotrofi e diabolici bambini adottati.
Una giovane coppia ha da perso da poco Jessica, nata morta. I due hanno altri due figli, la timida e dolce Maxim, che è sordomuta, e Danny il più grande. Tormentati dagli incubi sulla non nascita di Jessica, i due decidono di adottare una Esther, introversa ma educata e gentile bambina di origini russe, che sembra da subito dimostrare uno spiccato senso artistico. La sua integrazione nella nuova famiglia vivrà da principio di buoni momenti in cui Esther sembra legare sin da subito con la sorellina e con la matrigna, che sente superare il dolore per la perdita di Jessica; ma presto, una escalation di strani avvenimenti e di violenze porterà a scoprire la vera realtà di Esther che si rivelerà non essere la bambina perfetta che sembrava, fino all'inaspettato epilogo con tanto di clamoroso colpo di scena.
Orphan è un thriller che ha poche sbavature sul piano prettamente tecnico e il regista spagnolo Jaume Collet-Serra riesce nel compito di consegnare un film che nella sua categoria, si distingue soprattutto per alcune scene che convincono, e che raggiungono l'obiettivo di mantenere una forte tensione nello spettatore. Di particolare nota è come viene resa la paura infantile, come nella sequenza al parco giochi, con una serie di brevi particolari dove l'occhio della bambina
si fissa, terrorizzata dalla presenza maligna. Ma anche le evocative inquadrature soggettive, che diventano anche soggettive sonore nel momento in cui riflettono la vista e l'udito della sordomuta Maxim. Molta carica emozionale la danno le inquietanti reazioni inconsulte, gli urli, i ghigni, gli sguardi, e i dialoghi forbiti della perfida Esther, ottimamente caratterizzata col procedere delle sue torture psicologiche e fisiche. Di sicuro è sua la battuta più memorabile del film: “ti taglierò questo cazzetto spelacchiato prima che tu possa capire a che serve” riferendosi al fratellastro ficcanaso. Mi ripeterò, ma la regia è una buona regia, soprattutto se si considera “Orphan” inscrivendolo all'interno del circuito commerciale di cui fa parte, e per me è stata una sorpresa. Attendiamo il finora discreto Jaume Collet-Serra, già autore dei pessimi “La maschera di cera” e “Goal 2”, a lavori di maggiore spessore, per poter giudicare meglio il suo apporto al film. Per la cronaca, all'uscita negli Usa del film, sono insorte le associazioni “per la protezione dell'infanzia abbandonata”, terrorizzate dall'idea che il film potesse avere una ricaduta negativa sul numero di adozioni: chi avrebbe il coraggio di adottare un bambino malefico, o un gremlins o una bambola assassina? Io no.

BASTA CHE FUNZIONI

Titolo originale: Whatever Works
USA - 2009 - 92 min
Genere: commedia, drammatico
Regia: Woody Allen
Soggetto: Woody Allen
Sceneggiatura: Woody Allen
Produttore: Letty Aronson, Stephen Tenenbaum
Distribuzione: Medusa Film
Interpreti e personaggi
Larry David: Boris Yellnikoff
Evan Rachel Wood: Melodie St. Ann Celestine
Henry Cavill: Randy
Patricia Clarkson: Marietta
Ed Begley Jr.: John
Conleth Hill: Leo Brockman
Michael McKean: Joe
Christopher Evan Welch: Howard
Fotografia: Harris Savides
Montaggio: Alisa Lepselter
Scenografia: Santo Loquasto
Costumi: Suzy Benzinger


Woody Allen presenta questa commedia sentimentale leggera, senza troppe pretese, senza mai smentire il proprio stile, facendo leva sui suoi marchi di fabbrica e aderendo alla perfezione al genere, che egli stesso ha evoluto in anni di carriera, portandolo all'apice culturale. Tutto chiaro e ordinato tal punto che il titolo “Basta che funzioni”, sembra diventare un motto per un cinema più semplice ed immediato.
La storia è quella di Boris, protagonista e narratore del film: è lui che si introduce mentre parla di religione e politica con i suoi amici, rivolgendosi direttamente in camera, evidenziando, come se ce ne fosse bisogno, quanto sia Allen stesso a parlarci. Boris è infatti un anziano solo, fastidioso, cinico e misantropo, si è divorziato dopo aver tentato il suicidio, e se un tempo era fisico affermato, ora campa dispensando lezioni di scacchi; spesso si lascia andare a deliri di onnipotenza: è convinto che sia l'unico essere sulla faccia della terra a possedere un visione cosciente del mondo e da ciò ne deriva il suo pessimismo cosmico e la sua scarsa fiducia nel prossimo. La sua concezione fatalista del mondo è che non esistono se, e non esistono ma, tutto va come deve andare basta che funzioni, perchè “il caso è un fattore della vita sbalorditivo”. L'incontro scontro con una ragazza del profondo sud stravolgerà la vita di Boris, e porterà a evolversi, in direzione di una maggiore accettazione delle stravaganze e diversità fra uomini e donne nei vari stadi dei rapporti sociali.
“Basta che funzioni” fa dell'oralità il suo punto cardine, come del resto tutti le commedie di Allen, e combinandosi con la figura di Boris, un ottimo Larry David, e della sua parlantina così lamentosamente insistente, diventa a pieno titolo uno dei film più riusciti del genere. Battute che si susseguono a raffica e senza tregua, in pieno stile esprit de l'escalier, che ascoltiamo mentre una regia piatta senza ghirigori (di certo non esaltante) descrive pedissequamente ciò che lo spettatore deve vedere per capire con semplicità, senza fronzoli, aggiungendo al massimo qualche citazione come nelle sequenze de “L'infernale Quinlan” che vengono proposte. Ma “Basta che funzioni” è anche una commedia dell'equivoco, in cui momenti molto divertenti e godibili si riscontrano proprio nel fraintendimento: le differenze dei personaggi portano a scontri comunicativi (il dialetto della ragazza, che nel doppiaggio italiano è reso malamente), culturali, generazionali (la differenza di età tra i due), sessuali (tra rapporti omosessuali, e menage a trois), religiosi (come non sottolineare i dialoghi su ebraismo e sul “cristianesimo democratico”). L'unica pecca di questo film, a mio parere, sono i momenti in cui Boris si rivolge direttamente allo spettatore, che trovo sia una via troppo facile da percorrere per creare un dialogo diretto col pubblico; un altro elemento di disturbo è sicuramente l'eccessiva autocelebrazione di Allen che dopo essersi immedesimato nel protagonista non fa altro che ripetersi (e ripeterci) di essere un genio.
Ma la semplicità della narrazione è la cosa che interessa di più ad Allen e così la commedia, ordinata sin dall'inizio, si conclude con l'attesa quadratura del cerchio, in cui tutto è spiegato (sempre oralmente), dove tutti vivranno felici e contenti, almeno finché funzionerà.

DISTRICT 9

USA/Nuova Zelanda – 2009 – 112 minuti
Lingua originale: Inglese, afrikaans
Genere: fantascienza, azione, thriller
Regia: Neill Blomkamp
Soggetto: Neill Blomkamp
Sceneggiatura: Neill Blomkamp, Terri Tatchell
Produttore: Peter Jackson
Casa di produzione: Key Creatives, QED International, WingNut Films
Distribuzione: Sony Pictures
Interpreti
Sharlto Copley: Wikus Van De Merwe
Jason Cope: Grey Bradnam
Nathalie Boltt: Sarah Livingstone
David James: Colonello Kobus Venter
Louis Minnaar: Piet Smit
William Allen Young: Dirk Michaels
Robert Hobbs: Ross Pienaar
Vanessa Haywood: Tania Van De Merwe
Fotografia: Trent Opaloch
Montaggio: Julian Clarke
Effetti speciali: Image Engine Design, Weta Workshop
Musiche: Clinton Shorter
Scenografia: Philip Ivey





Uno dei titoli della nuova stagione cinematografica che ha creato maggiori aspettative da parte del pubblico, grazie anche alla massiccia campagna virale che ha accompagnato l'uscita del film. Da una parte temevo che la ditta Peter Jackson produttore, più un giovane regista esordiente (Neill Blomkamp) avrebbe sfornato la proverbiale “americanata” (pur essendo il primo australiano e il secondo sudafricano); dall'altra avevo ancora stampato nella mente le immagini del cortometraggio “Alive in Joburg” dello stesso Blomkamp, a cui sapevo si sarebbe ispirato questo “District 9”.
Siamo a Johannesburg, sono passati circa 30 anni dall'arrivo di una nave spaziale che tuttora sovrasta immobile il cielo della città sudafricana. Gli alieni, comunemente chiamati “gamberoni” dalla popolazione locale, sono stati rinchiusi in una sorta di centro di permanenza temporaneo, il District 9 per l'appunto, dove hanno costruito una baraccopoli e vivono apparentemente tranquilli senza bramare di conquistare il mondo. Relegati nel loro ghetto, come i “nostri” immigrati, si arrabbattano alla ricerca di carne e del mangime per i gatti di cui sono ghiotti, ormai piegati al controllo degli umani, che rendono i loro tentativi di ribellione sempre più sporadici e meno proficui. All'interno del campo vige la legge di una gang nigeriana che, preso il controllo degli affari, dal controllo delle loro armi aliene (che solo i “gamberoni” hanno il potere di far funzionare), alla vendita del cibo e ai pochi oggetti tecnologici che tuttavia sono vietati dal governo. Dalle prime immagini del film, sottoforma di mockumentary, con le interviste ai membri della MNU (la multinazionale che si occupa della sicurezza del District 9) e della popolazione, abbiamo la testimonianza di come la società civile, non ha mai accettato, né ha favorito l'integrazione dei clandestini alieni, non sopportando l'idea che questi esseri così diversi potessero occupare la propria terra: c'è ad esempio l'uomo che suggerisce di sterminare gli alieni con un virus, memore dell'immaginario fantascientifico collettivo, come in “Indipendence Day”, dimostrando così di non aver ricavato la giusta lezione dell'esperienza dell'apartheid, propria della nazione sudafricana (il district 6 era per l'appunto uno dei ghetti in cui erano rinchiusi gli afrikaans). La vicenda narrata è quella dello sgombero del district 9 e al trasferimento degli alieni, supervisionato da un dirigente dell'MNU, che per una serie di casualità si ritroverà a vivere come uno dei gamberoni. e a fuggire dalla sua stessa organizzazione. Un film che riesce a coniugare azione, sparatorie, e smembramenti vari, richiamando con un sottile rappresentazione della psicologia temi come la segregazione razziale, e la xenofobia, che è prerogativa degli umani: gli alieni sono esseri ritenuti inferiori, stupidi (la MNU per lo sgombero gli affibbia nomi americani, e li obbliga a firmare un modulo) e incivili perchè mangiano cose schifose, che Blomkamp mette in relazione con i panini dei fast food di cui si cibano gli uomini. Per quanto, la loro teconologia bellica, quindi la potenzialità distruttiva, sia di gran lunga superiore a quella umana, che tenta di sfruttarli in tutti i modi per poterla studiare e copiare. E ancora quando l'uomo si contamina con la razza aliena diventa “l'essere più prezioso della terra”: prima dell'eugenetica e della fantascienza il raggiungimento dell'essere perfetto passava per l'amore e l'incontro fisico tra un uomo o una donna. Ora la ricerca spasmodica del superuomo è l'incontro della razza umana con l'essere alieno, senza procreazione solo con agenti chimici. E ultimamente, vista la poca fiducia che c'è nel mondo, quella poca che c'è è chiaramente riposta nell'innocenza dei bambini, o meglio nei piccoli, in questo caso neanche più umani.


IL GRANDE SOGNO

Italia - 2009
Genere: drammatico, storico
Regia: Michele Placido
Sceneggiatura: Doriana Leondeff, Angelo Pasquini, Michele Placido
Produttore: Pietro Valsecchi
Casa di produzione: Taodue Film S.r.l.
Interpreti
Luca Argentero: Libero
Riccardo Scamarcio: Nicola
Jasmine Trinca: Laura
Michele Placido: Andrea
Laura Morante: Maddalena
Massimo Popolizio: Domenico
Alessandra Acciai: Francesca
Marco Iermanò: Andrea
Brenno Placido: Giulio
Fotografia: Arnaldo Catinari
Montaggio: Consuelo Catucci
Musiche: Nicola Piovani
Scenografia: Francesco Frigeri

“Mio nonno ha fatto l'occupazione delle terre nel '48. Ricordo diceva sempre La rivoluzione, bella parola, grande sogno... ma poi ci si risveglia”. Recita così Scamarcio,col suo volto leggermente meno inespressivo del solito: frase da cui prende il titolo di questo nuovo film di Michele Placido entando di calca la mano sullo stile che ha fatto il successo del precedente “Romanzo Criminale”.
Il film si apre con la rassegna del capitano della celere che sbraita contro il proprio reggimento, e in particolare introduce Nicola, il personaggio interpretato da Scamarcio. Subito a questa scena viene contrapposta una discoteca dove si balla al ritmo di Rocky Roberts, e in cui c'è Laura (Jasmine Trinca). Di questa simbolica dicotomia si occuperà tutta la prima parte del film: da una parte c'è Libero (impersonato da un sempre più bravo Luca Argentero), descritto dalla polizia come “torinese, figlio di nn, operaio comunista iscritto al PCI , viaggio in Unione Sovietica, frequenta fisica a Roma dove vive senza fissa dimora”: è un idealista, ironico, pacifista, e parla un po' per frasi fatte, insomma un'emblematico e stereotipato leader della rivoluzione studentesca degli anni sessanta; dall'altra c'è il coetaneo Nicola, giovane meridionale arrivato a Roma, dove si arruola nel reparto mobile della polizia, prendendo spunto dall'esperienza del giovane Placido che si trasferì a Roma e partecipò agli scontri della Sapienza, proprio nelle vesti di celerino. L'impressione che lascia questo personaggio, è che la sua figura sia trattata con maggiore decisione dal regista, riportandoci la sua versione della Storia, cioè quella di un povero Cristo proletario martire del dispotico e autoritario sistema di cui fa parte, succube dei metodi della celere (i pestaggi alla “n'do cojo, cojo”), che in qualche modo deve lavorare (guarda un po' proprio nella polizia) per potersi garantire gli studi da attore: a lui si contrappone un mondo di giovani borghesi snob, reazionari,che hanno la possibilità di studiare, ma la bruciano per scimmiottare la rivoluzione culturale che nel resto del mondo cambiava le cose. Mha d'altronde Placido al tempo era il celerino e non lo studenti. La storia poi è un normale polpettone sentimentale a tre fra Nicola e Libero che si iniziano a contendere Laura, nel momento in cui Nicola viene spedito all'interno della Sapienza come infiltrato della polizia, da un comandante della celere, interpretato da un grande Silvio Orlando che, denotata la vena attoriale del giovane, si esibisce recitando un passo de “Il Conte di Carmagnola”. Dopo il film perde anche ogni spunto anche per poter essere criticato e diventa un'accozzaglia delle immagini di repertorio degli scontri all'univerisità, montate con le riprese delle ricostruzioni, brevi inquadrature sincopate dei vari personaggi, fuse da canzoni degli anni 60': un dejà vu continuo, molesto e mi chiedo davvero se basti seguire questo schema ormai collaudato (con risultati assai migliori) per fare una buona opera con presupponenza storica. Da citare il cameo di Tatti Sanguinetti nel ruolo di professore universitario contestato, e la bella interpretazione del sottovalutato Massimo Popolizio, grande attore che aveva partecipato anche al precendente “Romanzo criminale” nelle vesti del “Teribbile”.
La mia personale esperienza nella visione di questo scialbo film, si conclude durante i titoli di coda con la prima scena che m'è venuta in mente: Angelo Bernabucci (in “Compagni di scuola” di Carlo Verdone) che, dopo aver messo una canzone al juke-box, si rivolge allo sfigato Fabris ricordando le feste (e le donne) di quando era giovane. E con tono canzonatorio gli fa: “Ahò ma non c'annavi mai alle feste te? Non te invitavano vè?”.

INGLORIOUS BASTERDS

USA – 2009 – 153 minuti
Genere: pulp, macaroni war
Regia: Quentin Tarantino
Sceneggiatura: Quentin Tarantino
Produttore: Lawrence Bender, Quentin Tarantino
Distribuzione: Universal Pictures
Interpreti
Brad Pitt: tenente Aldo Raine
Christoph Waltz: colonnello Hans Landa
Eli Roth: sergente Donnie Donowitz
Michael Fassbender: tenente Archie Hicox
Diane Kruger: Bridget von Hammersmark
Daniel Brühl: Frederick Zoller
Til Schweiger: sergente Hugo Stiglitz
Mélanie Laurent: Shosanna Dreyfus
Enzo G. Castellari: comandante nazista
Fotografia: Robert Richardson
Montaggio: Sally Menke
Scenografia: David Wasco



Dopo tanta attesa finalmente ecco di nuovo film di Tarantino. E se dopo la visione di “Kill Bill”, mai mi sarei immaginato un film come “Death Proof”, oggi ancor più di ieri sono confermate queste mie (im)previsioni. Anche perchè è impossibile aspettarsi qualcosa da un film di Tarantino, maestro anche nel disaspettare ogni aspettativa. Un film geniale e totale. “Forse questo è il mio capolavoro” recita Brad Pitt, in una battuta che sa tanto provenire dalla bocca delo stesso regista.
Una delle famose armi di Tarantino riscontrabili fin dall'inizio è l'efferatezza con cui mette in campo personaggi caratterizzati come solo lui sa fare: nel primo capitolo ecco a noi il colonnello delle SS Hans Landa, il “cacciatore di ebrei”, soldato altamente carismatico che si nota per la sua capacità di dominare la psiche di chi interroga, ben presto succube della sua influenza. Nel secondo capitolo è presentato Aldo Reine, capo del drappello di soldati ebrei, i bastardi appunto, uomini che sembrano non avere più niente da chiedere alla propria vita se non la vendetta e che verranno scaraventati in Francia non per fare prigionieri, ma per uccidere quanti più nazisti possibili con una violenza spietata (come si trattasse di zombie). Poi c'è Shosanna, unica sopravvissuta allo stanamento e allo sterminio della sua famiglia da parte del nazista Landa, che fatalmente incontrerà di nuovo nelle nuove vesti di proprietaria del cinema in cui sarà proiettata la prima parigina del film sulle gesta eroiche di Frederick, timido soldato tedesco osannato come un semidio dal ministro della propaganda Goebbels. Scene che verranno studiate per anni e che diveranno epocali: fra la suspance (di hitchockiana memoria) suscitata nell'interrogatorio iniziale di Landa, in cui i suoi modi dapprima garbati ed amichevoli poi sempre più austeri e sottilmente intimidatori: camera fissa e sporadici lenti movimenti lungo l'asse orizzontale e quello verticale, in cui lo spettatore trepidante attende la svolta che arriverà. O nell'incontro, con tanto di stallo alla messicana, fra alcuni “bastardi”, i nazisti e la diva dell'espressionismo tedesco nonché collaborazionista alleata. O ancora nel finale al cinema dove le più alte cariche tedesche compreso lo stesso Hitler, assistono al film celebrativo dell'eroismo tedesco. Scene che si fondono magnificamente fra l'azione trucolenta e splatter dei basterd, suspance, dialoghi avvolgenti, riflessioni (quelle che vengono comunemente chiamate citazioni) sul cinema e sulla Storia dalla bocca degli stessi personaggi, e una fine ironia alternata a esileranti gag comiche, che valorizzano al massimo le ottime prestazioni dell'inedito cast: in primis quella del bravissimo Chrisoph Waltz (Landa), a me sconosciuto fino ad oggi, ma che non a caso ha vinto la Palma d'Oro come miglior attore per questo film: in secundis il poliedrico ed esaltante Brad Pitt, che mi sorprende sempre più. Ma degni di nota sono anche la vendicativa Mèlanie Laurent, il cui volto sghignazzante che svetta dallo schermo del cinema in fiamme in una scena che personalmente è già un cult, e la bellissima Diane Kruger che con la sua eleganza restituisce lo stile del personaggio da lei interpretato. Camei per Mike Myers che interpreta il generale Ed Fenech (uno dei tanti tributi), e per Enzo Castellari, regista di “Quel maledetto treno blindato” a cui si è ispirato Tarantino, da sempre appassionato fan dei b-movies italiani. Musiche preesistenti come al solito spettacolari, una colonna sonora fatta di marce e motivetti fischiettanti che tanto ricordano lo stile di quelle composte dal grande maestro Morricone.
Un film con un sottotesto impressionante e impossibile da descrivere, una rivisitazione della Storia che si trasforma in una storia dove vengono stravolti i ruoli fra eroi e soldati maledetti, fra vendetta pubblica e privata, fra vinti e vincitori, fra crimini efferati e violenze necessarie a risolvere una guerra: perchè la Storia la scrivono i vincitori, come ricorda Landa nel finale. E chi non vorrebbe ritrovarsi nella parte del vincitore e riscrivere la Storia (del cinema)?

FA LA COSA SBAGLIATA (THE WACKNESS)

Titolo originale: The Wackness
USA – 2008 – 99 minuti
Genere: commedia drammatica
Regia: Jonathan Levine
Sceneggiatura: Jonathan Levine
Casa di produzione: Occupant Films, SBK Pictures, Shapiro Levine
Distribuzione: Fandango
Interpreti
Josh Peck: Luke Shapiro
Ben Kingsley: Dr. Jeffrey Squires
Famke Janssen: Kristin Squires
Olivia Thirlby: Stephanie
Mary-Kate Olsen: Union
Jane Adams: Eleanor
Method Man: Percy
Aaron Yoo: Justin
Talia Balsam: Mrs. Shapiro
Fotografia: Petra Korner
Montaggio: Josh Noyes
Musiche: David Torn
Scenografia: Annie Spitz


Uno scatenato a spassoso Ben Kingsley è l'arma in più di questa gradevole commedia drammatica del giovane regista Jonathan Levine che, con il suo stile personale, ci restituisce l'atmosfera dell'East Side di Manhattan di inizio anni '90. Un buon film che non a caso vince il Sundence Film Festival dello scorso anno come migliore opera drammatica.
Luke Shapiro si ritrova spesso a parlare con il dottor Squires: il ragazzo è il suo spacciatore di fiducia, quello che gli rimedia l'erba, mentre lo psicanalista è un uomo in piena crisi di mezza età che assume un po' di tutto, e che dispensa pillole di saggezza (piuttosto che quelle antidepressive) al suo giovane amico. Luke si è appena diplomato, ma ha problemi a relazionarsi con gli amici, non è mai stato con una donna e si nasconde dietro la musica hip-hop che si spara a cannone nelle orecchie mentre i genitori litigano. Parallelamente al rapporto confidenziale di amicizia che si istaura fra i due, si delinea presto quello sentimentale che Luke intraprende con Stephany, la figliastra di Squires, di cui è follemente innamorato. Il tutto in una New York dove il sindaco sceriffo Rudi Giuliani, criticato allo strenuo in tutto l'arco del film, fa mettere in galera i barboni, “quasi a nascondere la mondezza sotto il tappeto”, al pari di Luke che cerca di nascondere i propri problemi piuttosto che affrontarli, quando il dottore invece vorrebbe avere la sua età “per poter cadere, e poi rialzarsi” e ricominciare tutto con lo spirito di un ragazzo. Una storia che fonde la crisi adolescenziale e quella adulta, con il confronto scontro mai banale fra i due amici, che coglieranno i giusti aspetti l'uno dell'altro, imparando a accettare il dolore e farlo diventare parte integrante delle proprie esperienze, senza tentare di fuggirlo: e se da una parte il dottore vede sintetizzarsi l'illusoria evasione dai propri pensieri nella droga (intesa come antidepressivi), Luke da spacciatore vede in questa la soluzione dei problemi economici che attanagliano la sua famiglia che sta per essere sfrattata. “La droga è un grido d'aiuto e questo è il mio grido d'aiuto” enuncia presentando la sua storia (e quella di Squires). In poche parole i due sono fortemente complementari, molto più di quanto Luke lo sia con Stephany, e il dottore con la sua donna, le due componenti femminili negative. Una regia in cui spiccano, le animazioni oniriche di Luke, i suoi “sogni impuri”, le panoramiche dei paesaggi che cambiano di pari passo con l’umore dei protagonisti, così come si alternano colori freddi e caldi; forse per quanto riguarda il ritmo del film c’è qualche pecca nella parte centrale, in cui a tratti il film sembra stancante. Da sottolineare la stupenda colonna sonora con le canzoni hip hop (e non solo), in cui risaltano i brani che ascolta Luke, da i A Tribe called Quest, al Wu Tang Clan, da Notorius Big, al reggae dei Pioneers, che nel film verranno contrapposte ai gusti musicali del dottor Squires, che invece svariano dal Rock classico dei Grateful Death alla musica classica di Haydn. Al di tutto là, dispiace non vedere più spesso Ben Kingsley impegnato in ruoli (come questo) che risaltano il suo indiscutibile talento. Continuo a non capire il perché delle traduzioni dei titoli, ovvero come si possa trasformare “Wackness” (stravaganza) in “Fa la cosa sbagliata”, così tanto per parodiare il film di Spike Lee.

VIDEOCRACY


Svezia – 2009 – 85 minuti

Genere: Documentario

Regia: Erik Gandini

Produttore esecutivo: Kristina Åberg

Distribuzione: Fandango

Interpreti

Silvio Berlusconi: se stesso

Lele Mora: se stesso

Fabrizio Corona: se stesso

Flavio Briatore: se stesso

Riccardo Canevali: se stesso

Fotografia: Manuel Alberto Claro, Lukas Eisenhauer

Montaggio: Johan Söderberg

Musiche: David Österberg, Johan Söderberg

Esce dunque nelle sale il tanto discusso “Videocracy” del regista italo svedese Erik Gandini, dopo tutte le polemiche sorte a seguito della mancata promozione del film sulle reti Mediaset (si poteva immaginarlo), ma soprattutto sulla Rai che ha addotto assurde scusanti al distributore Procacci della Fandango film. Sull'onda della diatriba che si è aperta, anche e soprattutto tra le (forze) politiche, e visti i recenti scandali, ecco che il film ha ricevuto una grandissima pubblicità (in)volontaria che gli sta portando un grande successo nelle poche sale italiane che lo proiettano. E noi curiosi chissà cosa ci aspettavamo.

L'onesta premessa alla visione di questo documentario sarebbe dovuta essere: “Italiani di buon senso, ciò che vi verrà mostrato non dovrebbe essere una novità per voi: questo documentario è rivolto soprattutto a un pubblico europeo”. Infatti il documentario non presenta nulla di nuovo, niente che non sia già risaputo e visto, né a livello di forma, né di contenuti, né di scoop: se non foqualche inedita e inquietante ripresa dell'impresario dei Vip Lele Mora che nella sua camera completamente bianca e candida come il suo sorriso inebedito, si dichiara un “mussoliniano” convinto, e con orgoglio fa suonare dal suo cellulare “Faccetta nera”. L'elemento più fastidioso di questo documentario piuttosto banale, è la presenza di un ingenuo ragazzo che sogna di far carriera in Tv, il famoso “caso umano” che ha fatto il successo delle televisione commerciale con vari Maurizio Costanzo Show e simili, proprio quelli con cui ce l'ha Gandini, che però dimostra di non disdegnare a ricorrere ai mezzi del nemico. Si, perchè il “caso umano”, ci viene presentato con patetici primi piani in cui il suo sguardo a metà fra l'illusione e la convinzione che un giorno riuscirà nel suo intento, si mette a nudo davanti la calda e accogliente telecamera del documentarista, che sempre per una questione di integrità morale, lo fa esibire in avvilenti dimostrazioni di come sia un bravo karateka e al contempo sia bravo ad imitare Ricky Martin (“perchè Martin non sa cosa sia il karate, e Van Damme non sa cantare e ballare la musica latinoamericana”). A livello formale il documentario vorrebbe portare avanti la tesi (condividibilissima) su come la televisione, e in particolar modo quella commerciale, abbia modificato la società italiana, in poche parole di come la mostrazione pubblica sia diventata la più facile forma per accaparrarsi una fetta sempre più grande di potere: teoria sintetizzata dalla sentenza di Mora “popolare diventa chiunque: basta apparire”. E Gandini lo fa proponendo come intestatari di questa dottrina, Berlusconi, proprio colui che ha dato inizio alla Tv commerciale, il Presidente, come lo chiama lui e oramai tutta Italia, a cui affianca Corona indicando una continuità sicuramente ideologica fra i due, sottolineata da angoscianti sovrimpressioni dei due. Ma la carne che mette sulla brace è esposta con confusione, di certo non supportata da un montaggio all'altezza di una produzione importante, sebbene, ripeto, il discorso a cui miri è facilmente intuibile. Consiglio il documentario a tutti gli abitanti di Trinidad e Tobago, che forse sono gli unici nel mondo a non sapere in che acque paludose naviga la società italiana (di cui la politica e la televisione sono lo specchio e viceversa); ma lo raccomando anche a tutti coloro che avevano bisogno che un giornale (che fa solo ed esclusivamente i propri interessi economici) gli dicesse che il Presidente del Consiglio, anzi il Presidente, va a puttane, riusciendoli addirittura a scandalizzare, risvegliando e forgiando le annebbiate coscienze, quando per tutte le malefatte politiche erano tutti rimasti in silenzio.


THE INFORMANT!

Stati Uniti – 2009 – 108 minuti

Genere: commedia, drammatico, thriller

Regia: Steven Soderbergh

Soggetto: Kurt Eichenwald

Sceneggiatura: Scott Z. Burns

Produttore: Kurt Eichenwald, Jennifer Fox, Gregory Jacobs, Michael Jaffe, Howard Braunstein

Produttore esecutivo: George Clooney, Michael London, Jeff Skoll

Casa di produzione: Warner Bros. Pictures

Interpreti

Matt Damon: Mark Whitacre

Scott Bakula: Brian Shepard

Melanie Lynskey: Ginger Whitacre

Thomas F. Wilson: Mark Cheviron

Frank Welker: Mr. Whitacre

Patton Oswalt: Ed Herbst

Joel McHale: Robert Herndon

Fotografia: Peter Andrews

Montaggio: Stephen Mirrione

Musiche: Marvin Hamlisch

Scenografia: Doug J. Meerdink


Dopo l'agiografico “Che”, Steven Soderbergh, che ormai da diversi anni sforna film ad una media impressionante, ci presenta questa divertente e appassionante spy story, e si affida all'amico Matt Demon, affibbiandogli il ruolo di protagonista assoluto per questo “The informant”, basato su una storia vera e tratto dall'omonimo libro inchiesta di Kurt Eichenwald.

Mark Whitacre è un chimico di successo di una multinazionale del settore agroalimentare, è un uomo integerrimo e un padre modello: ha una moglie che lo ama e lo accondiscende nelle sue scelte, un figlio suo e due adottati, possiede una casa magnifica, un parco macchine da far gola a chiunque, e in ambito lavorativo con applicazione e costanza ha costruito la sua realizzazione e la stima dei colleghi: tutto questo partendo da lontano, come racconta egli stesso, dopo la morte dei suoi genitori in un incidente quando era ancora bambino e dopo essere stato adottato da un ricco texano che ha potuto permettergli gli studi nelle migliori scuole. Ma proprio durante il suo exploit personale, un ricatto economico sconvolge e compromette l'equilibrio che a fatica aveva conquistato, e previa richiesta da parte della sua stessa società, inizia una collaborazione con l'FBI per smascherare l'estorsore, che è a conoscenza dei motivi del buco finanziario che affligge la società. Ma il suo contributo alle indagini si trasforma ben presto nel voler ostinatamente dare le prove di come l'azienda sia d'accordo con altre multinazionali per mantenere elevato il costo del mais nel mercato globale, al fine (secondo lui) di eliminare le mele marce, e premiare i lavoratori onesti come lui animati solo dalla genuinità e dall'onestà morale. In un crescendo di fine ironia, follia, e colpi di scena si arriverà finale in cui l'equilibrio iniziale pare sia stato ristabilito.

Un film davvero ben congeniato sia nella scelta delle atmosfere candide, sottolineate da una colonna sonora appropriata come non mai, sia nel crescendo esponenziale dell'intrigo, che nella delineazione dei personaggi: dalla moglie di Whitacre con i suoi sguardi assenti, ancor più innocenti del marito: ai due agenti dell'FBI che coordinano l'attività spionistica, i cui volti davanti alle clamorose bugie di Whitacre sono fra gli elementi più comici del film. Ma soprattutto è notevole la grande prova attoriale di un Matt Demon all'ingrasso che definisce perfettamente il suo personaggio, tra sguardi di calma e d'improvvisa esaltazione, fra le sue ammissioni in cui né gli spettatori né i vari confessori che di volta in volta gli si profilano davanti riescono a cogliere le verità e le menzogne, ma anche nei suoi pensieri che caratterizzano il film, dove, nei momenti meno opportuni, delucida informazioni che niente hanno a che vedere con ciò che gli accade intorno, sintetizzando alla perfezione l'impressione di estraniazione (e di alterazione mentale) che caratterizza Whitacre. Un personaggio innocente (e malato) che si ritrova a confrontarsi con mondi, quello economico di una multinazionale e quello governativo e spionistico dell'FBI, in cui morale e interessi, verità e menzogna, si mischiano di continuo: temi che richiamano una sorta di esistenzialismo moderno che ultimamente va per la maggiore, e che registi, scrittori e artisti non disdegnano di trattare anche in chiave ironica (vedi anche “Burn After Reading”).

PELHAM 123

USA – 2009 – 106 min

Genere: azione

Regia: Tony Scott

Soggetto:John Godey (Morton Freedgood), Peter Stone

Sceneggiatura: Brian Helgeland

Produttore:Tony Scott, Todd Black, Jason Blumenthal, Steve Tisch

Casa di produzione:Escape Artists, Scott Free Productions

Interpreti

Denzel Washington: Zachary "Z" Garber

John Travolta: 'Bernard Ryder'/'Dennis Ford'/'Mr. Blue'

James Gandolfini: sindaco di New York

John Turturro: Camonetti

Michael Rispoli: John Johnson

Luis Guzmán: Ramos/'Mr. Green'

Victor Gojcaj: Bashkim/'Mr. Grey'

Robert Vataj: Emri/'Mr. Brown'

Gbenga Akinnagbe: Wallace

Jason Cerbone: agente Davis


Tony Scott, fratello del più famoso di Ridley, torna alla regia dopo il deludente “Deja vù”, riproponendo un adattamento del romanzo “Il colpo della metropolitana” di Morton Freedgood, avvalendosi anche stavolta di uno spento e sprecato Denzel Washington nel ruolo di salvatore della patria, affincandogli un John Travolta ormai in declino (declino dovuto almeno in parte ai noti problemi psico/famigliari/religiosi).

Washington è Walter Garber, capo della sicurezza della metropolitana di New York, uomo timorato, sotto inchiesta per corruzione, che un giorno come tanti nella Grande Mela si trova a negoziare con un sequestratore che si fa chiamare Ryder (“come Easy Rider, però con l'Y”), che tiene in ostaggio i passeggeri di un vagone nel cuore di un tunnel di New York. Inizia così il confronto tra i due, e solo tra loro, anche perchè Ryder, sfiduciato dalle istituzioni newyorkesi si rifiuta di comunicare con il capo della polizia (Turturro, attore che ultimamente naviga a vista sperperando il proprio talento), e il sindaco di New York (James Gandolfini di “Coffea and Cigarettes” dello stesso Turturro), a cui forse spetta il ruolo più interessante e caratterizzato del film. Si perchè il sindaco in questione, viene introdotto nel film come l'uomo si potente ma che però si finge uomo modesto, del popolo, guadagna la cifra simbolica di 1dollaro all'anno e seppur accompagnato da decine di guardie del corpo viaggia in metropolitana: gli comunicano che nel pomeriggio deve inaugurare l'anno scolastico leggendo una storiella ai bambini delle elementari (particolare che non può non ricordare il George Bush che imperterrito continua a leggere fiabe agli scolaretti dopo aver avuto la notizia degli attentati dell'11 settembre); ma questo sindaco ci tiene a sottolineare che “non sto per candidarmi, non voglio diventare presidente, il costume da Rudi Giuliani l'ho lasciato a casa”, e come commenta un uomo “alla fine sei meno coglione di quello che sembra”. In una New York in cui governa il caos, dove i giornalisti si scandalizzano per la vita privata del sindaco piuttosto che per le sue malefatte politiche, dove la polizia è completamente disorganizzata e non riesce neanche a bloccare il traffico di Manhattan per trasportare la somma richiesta dall'attentatore senza provocare incidenti a catena, dove il mercato azionario fa aumentare a dismisura il valore dell'oro in caso di attacchi terroristici lasciando carta bianca agli speculatori finanziari, il ruolo di salvatore della Patria spetta al comune cittadino, che, per quanto peccatore egli sia, ha ancora un barlume di coscienza (forse). Buoni propositi, dunque, un'ottima idea di fondo che però si perde in inutili dialoghi e scene “per allungare il brodo”, dove il montaggio convulso, i countdown incalzanti e ripetuti non aumentano l'adrenalina degli spettatori, che hanno l'idea di assistere a qualcosa di già vissuto (un dejà vù per l'appunto). Niente a che vedere con altri film di ben altro spessore che trattano temi analoghi pur non ripudiando l'azione (come ad esempio “Inside Man”), di cui questo “Pelham 123” risulta una cover “coatta” (nell'accezione di “forzata”). “Peccato” mi viene da dire, come spesso accade quando vedo i film (solo in parte riusciti) del regista americano.